
L’omicidio di Giulia Cecchettin, commesso da Filippo Turetta, ha rappresentato una svolta: non è stato il primo femminicidio, ma è stato quello che ha davvero fatto scattare l’attenzione collettiva.
Da quel momento in poi, grazie anche alle testimonianze del padre di Giulia, Gino, e della sorella della vittima, Elena, ha assunto importanza anche la necessità di affrontare il problema della violenza sulle donne.
Tuttavia non sono qui oggi per parlare nuovamente di quel crimine fuori da ogni logica avvenuto un anno e mezzo fa, così come di quelli dei giorni recenti di Sara Campanella e Ilaria Sula, ma del significato di femminicidio. O meglio, è davvero giusto chiamarlo femminicidio e non semplice omicidio? E ancora, è giusto che tutti gli uomini debbano sentirsi in colpa ogni volta che accade un fatto simile?
Entriamo nel dettaglio, sia da un punto di vista oggettivo, che non.
Esiste davvero il femminicidio? O è “solo” un omicidio?
La risposta è sì. E non per ideologia, ma per precisione: chiamarlo femminicidio aiuta a riconoscere le motivazioni che vanno oltre il singolo gesto. Non è solo questione dell’assassinio di una donna. Certo, il termine femminicidio si riferisce all’uccisione di una donna, ma non solo. Si riferisce innanzitutto e perlopiù alla violenza estrema esercitata contro una donna in quanto tale. Spesso ciò avviene in contesti relazionali (fidanzati, ex, mogli, familiari in generale) e si basa su dinamiche di potere, controllo e soprattutto disprezzo verso il genere femminile.
Omicidio è un termine neutro, che non specifica nulla: indica l’assassinio di una persona compiuto da un’altra. Il femminicidio, invece, rende evidente la violenza motivata di genere, nata da una posizione di disparità tra genere maschile e femminile.
Si usa il termine femminicidio proprio perché intrinsecamente aiuta a distinguere immediatamente queste motivazioni. Oltre a questo è utile per sottolineare un problema sociale, che, come detto all’inizio, grazie a Elena e Gino Cecchettin, è stato giustamente riportato in auge.
Farò degli esempi per specificare meglio:
Un uomo che uccide una donna perché quest’ultima voleva lasciarlo è femminicidio.
Un uomo alla guida che investe una donna a caso che attraversa una strada è omicidio.
Potrebbe essermi contestato in merito all’esempio, che “non è che un uomo uccide una donna perché voleva lasciarlo in quanto è di genere femminile”. Ed è vero, effettivamente non è così, il problema è peggiore: trattasi di patriarcato, ma ne parleremo poco più avanti.
Il punto non è solo il gesto, ma il contesto culturale
Quando un uomo uccide una donna perché questa lo vuole lasciare quel gesto nasce da un’idea, magari inconsapevole, ma ben radicata, ovvero:
– la donna è sua, cioè “gli appartiene”.
– non può decidere autonomamente della sua vita, soprattutto nei rapporti affettivi.
– se lui perde il controllo può arrivare a farle del male.
Raramente questo succede all’opposto, non perché una donna non possa provare sensazioni morbose possessive, ma perché difficilmente lo uccide. È capitato, e in quei casi ha senso parlare di maschicidio, ma avviene molto, molto di più l’opposto. Questo perché viviamo in una società che educa uomini e donne in modi diversi, soprattutto nei rapporti di coppia e nei conflitti.
Quali i motivi?
Ne farò i primi due che mi vengono in mente:
Costruzione dell’identità maschile. Per molti uomini (non tutti sia chiaro) l’identità è legata al controllo sulla partner. Se lei lo lascia, lui sente di perdere potere (non solo amore), si sente svilito. Ne consegue una frustrazione che può venire canalizzata in rabbia e violenza. Questo è l’esempio di Filippo Turetta.
Disparità nella violenza. Gli uomini statisticamente usano più spesso la violenza fisica estrema, le donne quando reagiscono difficilmente ricorrono a ciò, lo fanno semmai con modi meno letali.
E il patriarcato è esattamente questo.
Il patriarcato non è un’accusa generica: è un sistema culturale fatto di ruoli, regole non scritte e aspettative.
Agli uomini viene richiesto il controllo. Alle donne, la sottomissione. Non sempre in modo esplicito, ma spesso interiorizzato fin da bambini.
Ora arriverei alla seconda domanda posta in origine, alla quale risponderò in modo più soggettivo.
È giusto che tutti gli uomini debbano sentirsi in colpa ogni volta che viene commesso un femminicidio?
Risposta secca personale: no. Credo però che tutti gli uomini debbano sentirsi responsabilizzati, e non solo quando avviene un femminicidio, ma quotidianamente. Ciononostante credo sia perfettamente lecito non sentirsi tirati in causa, non sentirsi in colpa, non chiedere scusa. È Filippo ad aver ucciso Giulia, è lui l’uomo che l’ha fatto, anzi il mostro. Ci sono milioni di uomini che ogni giorno portano rispetto e amano la propria partner.
Sono responsabile nel modo in cui devo educare ai rapporti affettivi, nel dover denunciare aggressività e violenza.
Non sono colpevole. Ma sono parte della società in cui tutto questo accade. E questo basta per sentirmi responsabile del cambiamento.
Alcuni discorsi estremi rischiano di generalizzare, dando l’impressione che ogni uomo sia violento o potenzialmente colpevole. O, ancora, prendendo in considerazione l’affermazione qui sopra, potrebbe esser detto che gli uomini che non si sentono colpevoli sono complici.
Non funziona così. Semmai questo è quello che scaturisce il classico scontro di genere, stupido e ridicolo. Presente tuttavia quotidianamente, per partito preso. La strada non è scontrarsi, ma responsabilizzarsi in modo condiviso.
Detto questo, il senso dell’articolo penso sia chiaro: il femminicidio non è solo un omicidio e tutti gli uomini non devono sentirsi colpevoli ma responsabilizzarsi affinché la piaga del femminicidio possa essere debellata passo per passo.
La violenza non nasce dal nulla. Ma da una cultura che non la riconosce per tempo.