
Foto di Martin Kraft, tramite Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 4.0
La recensione su Past Lives che seguirà, sarà estremamente basata su pensieri soggettivi, senza pretese di onnipotenza o autorità.
East Village, New York. È mattina presto quando Arthur, sdraiato nel letto accanto a sua moglie Nora, le confida le sue preoccupazioni dopo il primo di una serie di incontri della donna con l’amico di infanzia Hae Sung. D’altra parte, erano passati 24 anni dall’ultima volta in cui i due si erano visti in carne e ossa, a Seoul, e quell’inconsueto incontro le avrebbe sicuramente lasciato qualche strascico. L’intera settimana trascorsa in visita a New York da parte dell’amico coreano scombussolerà notevolmente l’animo di Nora. Giorno dopo giorno, il tempo passato insieme, i ricordi che riaffiorano, e la sintonia che emerge da un passato ormai lontano, faranno vacillare enormemente la donna di fronte a dei sentimenti che pensava ormai sopiti.
Al “Non posso competere” l’americano aggiunge: “I due fidanzatini che si ritrovano anni dopo e capiscono che erano predestinati”. Lo sa bene, Arthur. Lo sa bene anche lo spettatore in realtà. Chi sarebbe così ingenuo da non credere che le storie che meglio funzionano sono quelle originatesi in un passato remoto? Lo sa bene Arthur perché è uno scrittore, e riconosce che quella storia sarebbe convincente anche come trama letteraria. Lo sa bene chi la vede su schermo, perché forse, a tratti, qualcosa del genere potrebbe averlo provato sulla propria pelle. Quella che lo sa meglio di tutti, però, è la regista di Past Lives, Celine Song, che sulla sua pelle davvero ha vissuto questa vicenda e ha deciso di renderla film. E di stupire il pubblico adottando uno schema non convenzionale su quel tanto abusato tema della nostalgia sentimentale.
Come dare nuova linfa a questo genere? Rimuovendo sceneggiate e forzate smancerie tipiche, facendo prevalere stralci di quella che potrebbe essere una vicenda vissuta da chiunque. Perché a far funzionare Past Lives non è tanto la trama, i sentimenti, il disperato tentativo di Hae Sung di riacciuffare un passato ormai lontano, bensì i dettagli. Nel film tutto è reso verosimile e terribilmente coerente da far pensare che forse, in questa storia, tutti i protagonisti meriterebbero la felicità. Ma è proprio l’infelicità di tutti e tre i personaggi a rendere unica la trama. Eppure, basterebbe così poco, si potrebbe pensare.
La verità è che nella semplicità apparente di una trama innegabilmente a tratti scontata, quello a cui il pubblico si trova davanti è un continuo saliscendi improvviso di empatia smisurata verso i tre personaggi. Dopo l’addio iniziale e un andamento fin troppo lineare della trama, interrotto dalle video-chiamate su Skype dei due vecchi amici, la comparsa di Arthur nella vita di Nora segna un profondo cambiamento in quello che “sarebbe potuto essere”, cioè il ricongiungimento di Nora e Hae Sung. Arthur appare senza preavviso e stravolge i piani sposandosi con Nora. “Nella storia io sarei il malvagio marito americano che intralcia il loro lieto fine”, commenta Arthur, sottolineando il pensiero di chi sta dietro lo schermo.
Il successivo riavvicinarsi di Nora e Hae Sung a New York, culminante nell’uscita a tre, dove i due coreani si scambiano nella loro lingua madre commenti colmi d’affetto alle spalle di un Arthur che non può capire è scombussolante. Povero Arthur verrebbe da pensare. Dietro non c’è malafede, ma solo nostalgia. Un sentimento sepolto da tempo che esplode improvvisamente. E alla fine? E alla fine quel tanto atteso e prevedibile bacio, in quella lunga sequenza di addio tra Nora e Hae Sung, in cui i due si guardano senza dirsi nulla, non arriva. Lasciando un senso di vuoto, forse. Ma è proprio grazie a questo e alle lacrime finali di Nora, che scatenano compassione, che il film funziona a meraviglia.
Tutto qui? No. C’è altro. Non è solo la trama a funzionare. Sono i silenzi che danno forza a dialoghi semplici e privi perlopiù di inutile e scontata retorica a dar vero valore al film. La camera che si focalizza su dettagli espressivi, che sottolinea il linguaggio del corpo; l’utilizzo prevalente della lingua coreana e dei sottotitoli, che prevalgono sul doppiaggio.
È tutto apparentemente semplice ma complesso a tal punto da aver visto poche volte film di questo genere colpire con così tanta forza.
Past Lives è questo. E molto altro. Ma è innanzitutto e perlopiù un ottimo film.