
Io sono la fine del mondo, film di recente uscita, e presente su Netflix, ha segnato il debutto cinematografico di Angelo Duro, che abbandona il palco del teatro per salire su quello – meno indulgente – del grande schermo. Novantasei minuti di sarcasmo, invettive contro la società moderna, e una Palermo così caricaturale da sembrare disegnata da uno che l’ha visitata una volta, ma ci è rimasto male. Il film si lascia guardare, a tratti diverte, ma nel complesso scivola nella trappola dell’autocompiacimento. Lo spettacolo di un comico che ride delle sue stesse battute, mentre tutto il resto tace.
Un incipit da sberla educativa
Già i primi dieci minuti fanno intuire cosa ci aspetta: un monologo interiorizzato su quanto faccia schifo il mondo, la gente, i figli degli altri, i genitori, i clienti dell’autobus notturno e persino il panettone. Un fiume di misantropia condito da battute al vetriolo che, dopo i primi cinque, comincia a sembrare un audio Whatsapp di uno che si lamenta di tutto, anche del meteo. L’umorismo c’è, ma è come un bicchiere di vino rosso alle 8 del mattino: può piacere, ma è indigesto.
La forza del palco, persa nella regia
Il film sembra la trasposizione letterale di uno spettacolo teatrale. La regia è funzionale come un cartello stradale sulla tangenziale: c’è, ma non racconta nulla. Nunziante, che pure ci aveva regalato commedie ben più strutturate, qui si limita a registrare Duro che “fa Duro”. Peccato che il cinema richieda ritmo, inquadrature, costruzione narrativa. Tutte cose che qui restano accennate, come se l’obiettivo fosse solo far parlare Angelo, e il resto venisse dopo.
Il personaggio è uno solo (e parla sempre lui)
In Io sono la fine del mondo il protagonista è un misantropo. E fin qui tutto bene. Ma è un misantropo che parla sempre, monologa, pontifica, predica, sentenzia. Gli altri personaggi? Comparse silenziose o sagome funzionali alle sue bordate. Il padre, la madre, la sorella: tutti descritti in modo tale da sembrare usciti da un libretto di stereotipi siciliani per milanesi. Nessuna evoluzione, nessuna ambiguità: solo sagome su cui scaricare frustrazioni. Alla lunga, viene voglia di urlare “fai parlare anche loro!”
Una Palermo da cartolina cinica
Il ritorno a Palermo, che avrebbe potuto essere occasione per scavare nei conflitti familiari e nel trauma generazionale, diventa invece un pretesto per un altro giro di giostra tra luoghi comuni e disprezzo esistenziale. La città è bella, la fotografia funziona, ma è lo sguardo ad essere stanco, afflitto da un cinismo preconfezionato che non sa più sorprendere né turbare.
Dialoghi? No, monologhi a raffica
Non ci sono dialoghi veri e propri, ma una sequenza continua di pensieri trasformati in voce fuori campo, tipo diario segreto di un sociopatico. Duro parla, e la realtà gli dà ragione. Nessuno lo contraddice, nessuno lo mette in discussione. Il rischio? Che il messaggio diventi dogma, e l’ironia si trasformi in predica.
Cosa si salva?
Due cose:
- La coerenza stilistica. Il film è esattamente ciò che ti aspetti da Angelo Duro: senza filtri, caustico, crudo. E in questo senso è coerente, un’estensione visiva del suo repertorio comico.
- Alcune trovate visive. Alcuni momenti (pochi, ma presenti) in cui la messa in scena riesce ad aggiungere qualcosa in più, spezzando la monotonia del monologo eterno.
Conclusione: un lungo sfogo con la pretesa di essere cinema
Io sono la fine del mondo non è un brutto film. Ma è un film stanco. Stanco di tutto, incluso il mezzo che lo ospita. È una lunga filippica contro il mondo, priva però del ritmo e del coraggio necessari per trasformarsi in vera satira. Se ti piace Angelo Duro, lo amerai. Se lo trovi pesante già su Instagram, qui potresti avere l’impulso di lanciare il telecomando.
Il cinema è un’arte collettiva. Questo film, invece, è l’arte di uno solo. E a volte, una voce sola, può risultare noiosa. Anche se urla forte.