
Dieci corpi. Dieci nomi che forse non conosceremo mai davvero. Otto studenti, un’insegnante, e un ragazzo di ventun anni che ha deciso di trasformare la sua rabbia – o forse il suo dolore – in un’arma. A Graz, stamattina, la scuola è diventata teatro di morte a causa di una sparatoria.
Una tragedia che sa di déjà-vu
Alle 10:02, il rumore dei colpi ha squarciato i corridoi del liceo BORG Dreierschützengasse. Una scuola qualunque, in una città ordinata, europea, civile. Eppure oggi ha conosciuto l’orrore. A Graz la sparatoria è stata breve, feroce. Poi il silenzio. Il ragazzo si è tolto la vita nel bagno della scuola. Dentro il suo zaino, due armi. Nessuna spiegazione.
Un déjà-vu che brucia, perché ci illudevamo che qui non potesse accadere. Che questo fosse “un problema americano”, un mostro che vive oltre oceano. E invece, oggi, è sceso alla fermata del tram, ha varcato il cancello della scuola, e ha sparato.
Domande che resteranno sospese
Chi era? Cosa voleva? Perché? Sono le domande che si rincorrono da ore, nei telegiornali, sui social, nei messaggi tra genitori che si stringono i figli più forte. Ma le risposte, forse, non arriveranno mai. Perché le spiegazioni non bastano quando il dolore è così profondo. Quando i banchi restano vuoti e le foto di classe diventano altarini.
Il prezzo dell’indifferenza
Eppure, qualcosa lo sappiamo. Sappiamo che le armi usate erano regolarmente detenute. Sappiamo che nessun allarme aveva preceduto questa strage. Sappiamo che in Austria, come in tante altre democrazie tranquille, parlare di controllo delle armi è spesso tabù. Troppa fiducia, troppa inerzia. E così, mentre i politici si affrettano a proclamare giorni di lutto, ci chiediamo: chi protegge davvero i nostri figli?
Lutto e promesse – già viste
Arrivano le dichiarazioni. I tweet. Le lacrime di circostanza. “Mai più”, dicono in coro. Ma lo abbiamo già sentito. Dopo Uvalde, dopo Parkland, dopo Dunblane. Promesse che non cambiano leggi. Lacrime che non fermano le pallottole.
La verità più amara? Non ci siamo accorti dei segnali. O, peggio, li abbiamo ignorati. Perché è più comodo credere che certi mali non ci appartengano. Fino al giorno in cui bussano alla porta di casa.
Chi paga il conto
A pagare non saranno le istituzioni. Saranno le famiglie che oggi devono riconoscere un corpo. Gli studenti che torneranno tra quelle mura, se mai ci torneranno, con negli occhi un prima e un dopo. Saranno i giovani che hanno visto la morte sedersi accanto a loro, tra un compito in classe e una lezione di storia.
La scuola, luogo di crescita, è diventata zona di guerra. E oggi, ognuno di noi dovrebbe sentirsi chiamato in causa.
Una ferita collettiva, non solo austriaca
Questo non è solo il lutto di Graz. È una ferita che attraversa l’Europa, che parla di disagio giovanile, di solitudine, di accesso alle armi, di sistemi che non ascoltano. E che troppo spesso si accorgono dei problemi solo dopo che qualcuno ha premuto un grilletto.
Una domanda per tutti noi
Alla fine, non si tratta solo di sicurezza o leggi. Si tratta di che società vogliamo essere. Una che previene, o una che piange. Una che ascolta, o una che seppellisce. Oggi, la risposta è arrivata a colpi di fucile. Ma non è l’unica possibile. Non deve esserlo.
Perché se davvero vogliamo onorare chi non c’è più, dobbiamo fare qualcosa di più del minuto di silenzio. Dobbiamo svegliarci. Cambiare. Chiederci: cosa potevamo fare? E cosa, da domani, non possiamo più permetterci di non fare.
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