
Precisazione, questo articolo non riguarda la recensione di Never Flinch, ma solamente cosa ho notato al primo impatto, dopo diverse pagine lette (so che è scritto nel titolo dell’articolo, ma non si sa mai). Il romanzo è uscito ieri, la recensione vera e propria uscirà su RealCultura tra qualche giorno!
Stephen King torna a scrivere di mostri, ma questa volta non ha bisogno di inventarli. Gli basta guardarli in faccia, tra i palazzi di Dayton o nei corridoi di un centro conferenze, e lasciare che siano loro a parlare. O a colpire.
L’orrore quotidiano e l’assenza del soprannaturale
Fin dalle prime pagine si intuisce la direzione: niente creature da incubo, niente portali oscuri. L’orrore qui è tutto umano. Le ossessioni, le paranoie, la violenza sotterranea che serpeggia tra relazioni apparentemente normali: è questo il terreno che King esplora. E proprio perché privo di elementi soprannaturali, risulta ancora più perturbante.
Holly Gibney, la fragilità come bussola
A guidarci c’è Holly Gibney, uno dei personaggi più amati e fragili dell’universo kinghiano. Holly è smarrita, timida, ostinata. E mentre cerca la verità, inciampa nei fantasmi del presente. L’America in cui si muove è inerte e pericolosa, popolata da persone che sorridono con le labbra ma covano odio negli occhi. Nulla esplode, ma tutto brucia piano
Scrittura asciutta, tensione nei dettagli
Lo stile è essenziale, quasi chirurgico. I dialoghi sono misurati, mai sopra le righe. I dettagli fanno la differenza: una porta lasciata socchiusa, una frase detta a metà, una telefonata non restituita. La tensione si costruisce per sottrazione, come in certi noir classici dove il silenzio pesa più di cento spari.
La pazienza del male
Il male qui è paziente. Non agisce per impulso, ma osserva, prende nota, aspetta. E noi lettori impariamo ad aspettare con lui. Non c’è la fretta di arrivare a una rivelazione: c’è invece la lentezza inquietante di un’indagine morale, di una progressiva discesa nel lato più torbido dell’animo umano.
Fidarsi o no? Non so ancora come andrà a finire. Ma so che Never Flinch non è solo un thriller. È una riflessione sul controllo, sulla colpa, sull’identità. E King, ancora una volta, non ci chiede fiducia: ci chiede di guardare. Senza distogliere gli occhi. Senza tremare.
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