
Ci sono libri che ti raccontano una storia.
E poi c’è Strani disegni, scritto da Uketsu, che non ti racconta… forse sarebbe meglio dire “ti osserva”.
Apri la prima pagina. Nulla urla. Nulla esplode. Eppure… qualcosa è storto.
Una vignetta, un’ombra, una riga fatta con una matita tremante.
È qui che capisci: questo non è un giallo da risolvere, è un dubbio da abitare.
Uketsu – chiunque sia, dovunque sia – scrive come se stesse parlando da dietro una porta chiusa.
La voce arriva ovattata, eppure ogni parola ti pizzica la pelle.
I suoi racconti (perché sì, sono quattro, ma anche uno solo) non hanno fretta: accennano, non dichiarano.
Ti fanno inciampare nei particolari:
- Un blog dimenticato.
- Uno scarabocchio infantile che non è poi così infantile.
- Un disegno fatto da chi non c’è più.
- E una connessione che non vedi… finché non è troppo tardi.
Leggerlo è come camminare a piedi nudi su un pavimento disseminato di cocci: non ti taglia subito, ma sai che qualcosa ti entrerà sotto pelle.
La scrittura?
Secca. Sottile. Silenziosa. Come il graffio di una matita su un foglio ruvido.
Non c’è bisogno di sangue, urla, mostri. C’è solo l’inquietudine del non detto. E questo basta.
E i disegni, sì: non sono illustrazioni, sono presenze. Appaiono come tracce, come scarti, come segnali.
Non spiegano. Ti guardano. E ti lasciano lì a chiederti: “Cosa mi sto perdendo?”
Strani disegni, ennesima opera di Uketsu, è un libro che non ti dà risposte. Ti lascia in compagnia di domande mal disegnate.
E forse è proprio questo il suo vero orrore.