
Per settant’anni ha dato voce al metallo e anima alla geometria. Oggi il tempo si ferma davanti a una delle sue sfere incise, e tace. È morto a 98 anni Arnaldo Pomodoro, artista visionario, architetto dell’invisibile, scultore che ha trasformato il bronzo in metafora e il vuoto in significato. Con lui se ne va una mente capace di rendere il rigore un’emozione e la materia un enigma.
Le sue opere erano note, ma era l’interno a cambiare tutto: squarci, fenditure, meccanismi nascosti. In lui la scultura non era mai solo estetica, ma racconto, memoria, ferita e rinascita. Ogni sfera era un mondo: perfetto in apparenza, spezzato dentro. Un universo che parlava di umanità, tecnologia, storia, con un linguaggio fatto di luci e ombre, silenzi e superfici corrose.
Le cause della morte
La notizia è arrivata il 23 giugno 2025, proprio alla vigilia del suo compleanno. Pomodoro si è spento nella sua casa di Milano, all’età di 98 anni. Le cause della morte non sono state ufficialmente rese note, ma si trattava di un lento declino fisico legato all’età. Il mondo dell’arte, e non solo, lo saluta oggi con rispetto e gratitudine.
Una carriera monumentale, inquieta, internazionale
Nato il 23 giugno 1926 a Montefeltro, Arnaldo Pomodoro era ingegnere per formazione e scultore per destino. A Milano arrivò nei primi anni ’50, in un’Italia che sognava il futuro e cercava ancora un linguaggio. Lui lo trovò nel metallo, nella forza arcaica della materia piegata alla visione. Con Fontana, Castellani e Manzoni condivise la stagione dell’avanguardia, ma il suo segno fu subito altro: epico, simbolico, meccanico e magico insieme.
Le sue sculture monumentali sono ovunque: da Roma a Milano, da Dublino a New York, dalla sede dell’ONU al Trinity College. Ma ogni opera è una ferita aperta sul mistero del tempo. Il Disco Solare, la Sfera con Sfera, il Grande Portale… Ogni lavoro è un pensiero solidificato, un orizzonte inciso nella materia.
L’ultima apparizione pubblica
Negli ultimi mesi Pomodoro aveva continuato a dialogare col suo pubblico grazie alla Fondazione che porta il suo nome, diretta da Carlotta Montebello. L’ultima grande mostra risale alla riapertura del suo Labirinto a Milano, lo scorso marzo: un viaggio fisico e simbolico ispirato all’Epopea di Gilgamesh, tra rilievi, specchi, visioni. Lì, il pubblico poteva ancora sentire la voce muta dell’artista: quella che racconta senza parole, che scolpisce il tempo dentro un corridoio di bronzo e luce.
Era stanco, ma lucido. Non cercava applausi, ma ascolto. E nel silenzio del Labirinto, forse, aveva già scolpito il suo addio.