
«Il giorno del mio settimo compleanno, il 14 aprile 1873, mia madre, Molly Walsh, mi mise l’abito della domenica e mi portò a Union Square per farmi fare una fotografia». Una frase tenera, quasi nostalgica. Ma già dal primo rigo, Il mio nome è Emilia del Valle ci dice tutto: il passato non è mai solo memoria. È una scena in posa, costruita, piena di simboli che non sappiamo più decifrare.
Isabel Allende torna con un romanzo che sembra storico, ma che pulsa di domande contemporanee. Niente magia, niente realismo fantastico: solo la fotografia di una vita femminile che prova, per l’ennesima volta, a uscire dalla cornice.
Una donna contro, da sempre
Emilia del Valle nasce nell’America del XIX secolo, da un incontro proibito tra una suora irlandese e un aristocratico cileno. La sua stessa esistenza è una contraddizione: figlia illegittima, ma dotata di una mente libera e affilata. Non cerca rifugi né protettori: cerca la verità, anche quando le brucia la pelle.
Allende non la santifica. Emilia sbaglia, cede, si maschera da uomo pur di farsi ascoltare, tradisce le aspettative che il suo tempo impone. Ma è proprio in questo suo disordine interiore che si accende la potenza del romanzo: Emilia non è l’eroina perfetta, è una donna che si ostina a voler esistere pienamente, anche quando il mondo vorrebbe ridurla a ombra.
La Storia come sfondo (e come trappola)
L’ambientazione è impeccabile: San Francisco, New York, Santiago del Cile. Tutto pulsa di dettagli, ma nulla è lezioso. La guerra civile cilena del 1891 non è solo lo scenario finale: è lo specchio violento di una società che ha paura delle donne libere, delle idee nuove, delle parole scritte con rabbia. Emilia attraversa tutto questo come una scheggia, come un testimone involontario ma necessario. Il suo viaggio non è un’epopea, è una corsa contro l’oblio.
L’identità come frontiera
Emilia è una donna, ma anche un autore nascosto dietro uno pseudonimo maschile. È irlandese, cilena, americana. È straniera ovunque eppure sempre a casa nelle sue parole. Allende fa dell’identità una geografia instabile, in cui ogni etichetta è un recinto da scavalcare. La protagonista non chiede permessi, non cerca approvazione. Vuole solo raccontare, capire, resistere.
Ed è qui che il romanzo si fa più attuale che mai: in un tempo in cui le donne vengono ancora zittite, la voce di Emilia – ruvida, onesta, scomoda – diventa un atto politico. Non parla per essere amata. Parla per esistere.
Lo stile: emozione contenuta, rabbia elegante
La scrittura di Allende è sottile e consapevole. Ogni frase è una carezza che può graffiare. Non ci sono melodrammi, non ci sono apici retorici. Ma c’è una compostezza che inquieta: perché sotto la bellezza del linguaggio si avverte il rumore di fondo della rabbia. È come una lettera scritta a mano con inchiostro e sangue.
Un’epoca passata, o forse no
Il Cile di fine Ottocento, con le sue contraddizioni, i suoi privilegi e le sue ipocrisie, somiglia fin troppo al presente. E Allende non fa sconti. Né ai potenti né ai silenzi complici. Emilia osserva tutto: le ingiustizie di classe, il moralismo ipocrita, l’indifferenza istituzionale. E mentre racconta la sua storia, ci costringe a guardare la nostra.
Conclusione: la verità ha un nome, e non chiede scusa
Il mio nome è Emilia del Valle non è un romanzo d’intrattenimento. È un richiamo. Un invito a non tacere, a non nascondersi, a scrivere anche quando fa male. Emilia non ci offre certezze né consolazioni. Ma ci ricorda che raccontarsi può essere un gesto radicale.
Isabel Allende firma uno dei suoi romanzi più politici, più intimi, più feroci. Non c’è bisogno di magia questa volta. Basta una voce. E quella voce – chiara, imperfetta, indimenticabile – ha un nome che non si può dimenticare.
CLICCA QUI PER LA RECENSIONE DEL NUOVO ROMANZO DI STEPHEN KING