
Tutti coloro che conoscono Teresa Ciabatti sanno bene che i suoi romanzi scavano nell’identità, nei non detti della memoria, nei rapporti di potere. Con quest’ultimo romanzo, Donnaregina, edito da Mondadori nel 2025, l’autrice compie un salto audace. In che senso? Abbandona per un momento i territori autobiografici più espliciti per immergersi in un dialogo quasi impossibile – quello con un boss della camorra, Peppe Misso, detto ’o Nasone.
La trama: un’intervista che diventa un viaggio
Tutto parte da un incarico giornalistico: la scrittrice è chiamata a intervistare Misso, oggi ottantenne, ex superlatitante, autore di una guerra feroce nel ventre di Napoli. Ma il romanzo si allontana subito dal reportage. Non è un’inchiesta né una cronaca, bensì un dialogo in bilico tra attrazione e repulsione, tra lucidità storica e fascinazione umana.
Ciabatti non cerca né la redenzione né la condanna assoluta. Racconta, ascolta, soprattutto osserva. E nel farlo, ci mette la sua voce più autentica: insicura, ironica, vulnerabile.
Un boss, tra UFO e colombi
Ciò che rende Donnaregina sorprendente non è tanto il protagonista, quanto lo sguardo dell’autrice. Ciabatti non si limita ai fatti – che pure sono raccontati con precisione documentaria – ma esplora le crepe dell’uomo. Misso viene descritto come un personaggio dalle mille contraddizioni: temuto e deriso, colto e superstizioso, crudele e tenero. Si appassiona all’allevamento dei colombi e crede negli UFO. E mentre parla, ogni certezza si incrina: è un criminale, sì, ma anche una voce fuori dal tempo. Capace di riflettere sul senso del potere, sul pure quello dell’abbandono. Un qualcosa che i più potrebbero pure non aspettarsi, soprattutto pensando alla figura che la protagonista ha davanti. Come può un uomo così crudele avere, quantomeno in certi aspetti, tale umanità? Tale profondità d’animo?
Stile e tono: la Ciabatti più sincera
Comunque, lo stile della Ciabatti è come sempre diretto, spigoloso, personale. Ma in Donnaregina si avverte una maturità nuova: c’è meno ricerca dell’effetto, una maggiore profondità. È come se l’autrice si prendesse il rischio di non sapere tutto, di non avere sempre ragione. E questa fragilità la rende ancora più potente.
Il romanzo è anche un atto di fiducia nel lettore: la Ciabatti non semplifica, non guida, né moralizza. Semmai offre un’esperienza, e lascia che ognuno tragga le sue conclusioni. Cosa apprezzabile e non sempre presente nella narrativa contemporanea.
Perché leggerlo
Come tutti i romanzi che su RealCultura recensiamo, è certamente consigliato. Non perché tutti i libri siano belli, ma perché abbiamo la filosofia di recensire quelli che restano impressi. Tornando al discorso, vale la pena leggerlo perché porta uno sguardo insolito sulla criminalità, che non assolve ma neppure riduce tutto a bianco e nero. È anche un libro sull’ascolto, sul limite della scrittura, sulla possibilità (e impossibilità) di raccontare la verità.
Chi ama la scrittura introspettiva di Teresa Ciabatti troverà in queste pagine una conferma, ma anche una sorpresa: una scrittrice capace di guardare fuori da sé senza mai smettere di mettersi in discussione.