
“Qua è un cimitero abbandonato, stiamo vivendo nella merda, è tutto bruciato. Stiamo morendo lentamente. Per favore se potete entrare”.
“Peggio dei cani. Peggio di un cane stiamo vivendo qua”.
“Una persona si è impiccata, ha usato le lenzuola, si è fatta anche i tagli sulle braccia”.
“Io non ce la faccio più, è la verità, non ce la faccio più. Io faccio una cosa brutta. Lo giuro su Dio. Io adesso ho avvisato voi”.
La realtà dei Centri di Permanenza per i Rimpatri
Queste sono solo alcune pesanti frasi che persone migranti hanno pronunciato in attesa di una convalida per la loro valutazione all’interno del CPR, ossia Centri di Permanenza per i Rimpatri.
Una strage silenziosa che il Ministro Matteo Piantedosi ha scelto di ignorare ai microfoni di Presadiretta.
Il CPR di Macomer: da carcere di massima sicurezza a luogo di violenze
Un CPR si trova in Sardegna, a Macomer, un tempo carcere di massima sicurezza per capimafia al 41bis (il cosiddetto “carcere duro”). All’interno, agenti in tenuta antisommossa (come se i migranti fossero armati fino ai denti, dal momento che la struttura li spoglia dei loro averi all’ingresso) picchiano le persone lì recluse.
Somministrano psicofarmaci per mantenerle inoffensive, drogandole indiscriminatamente, in attesa dell’espulsione o del permesso di soggiorno.
Da centri di accoglienza a luoghi di tortura
Queste strutture, che dovrebbero accogliere le persone migranti che richiedono asilo politico, si sono trasformate in centri di violenza, torture e atti di autolesionismo.
C’è chi si cuce la bocca col fil di ferro per protesta, chi invece gli agenti di polizia trascinano per terra, sull’asfalto, logorandogli la schiena.
La testimonianza di Homar el Hallam
Homar el Hallam, un ex ospite del CPR, ora risiede in Svizzera ma ha raccontato come trattavano lui e gli altri compagni di stanza: li picchiavano per ore, li privavano del cellulare per impedire di comunicare con i familiari, li costringevano al suicidio o all’autolesionismo per il dolore insopportabile della permanenza.
Le atrocità subite dai migranti in Libia
Quasi sempre i migranti arrivano dalla Libia, un regime dittatoriale che pratica sistematiche violazioni di diritti umani sulle persone migranti.
Percuotono, minacciano, stipano in celle sovraffollate.
Alcuni testimoni, coperti in volto per ragioni di sicurezza, hanno raccontato che i trafficanti di esseri umani chiedono soldi per traghettarli in Italia. Ne chiedono sempre di più, fino a prosciugare le risorse della famiglia di chi parte.
Le forze di sicurezza libiche, in realtà milizie criminali, fanno affari con ciò che si può definire a pieno titolo tratta di esseri umani.
Il caso Moussa Diarra: una vittima dell’odio xenofobo
Ha fatto scalpore il caso di Moussa Diarra, arrivato in Italia dalla Libia, che nel 2016 agenti di polizia hanno ucciso con un colpo di pistola.
Subito la stampa simpatizzante di destra ed estrema destra ha marchiato il ragazzo come disadattato, drogato, pazzo.
Anche il Vicepresidente e Ministro della Salvini, sotto un post su Facebook, ha scritto: “Con tutto il rispetto, non ci mancherà”.
Ignorante e deficiente, ha alimentato simpatie xenofobe, con cui l’estremismo di destra va a braccetto, dimostrando come gran parte della classe politica provi orrore per le persone migranti.
La tragica vicenda di Moussa: tra burocrazia e disperazione
Moussa era depresso, è vero, perché la questura rinviava continuamente la data di ritiro del permesso di soggiorno.
Quando, finalmente, lo ha ottenuto, era già scaduto, ironia della sorte.
Frequentava rifugi per senzatetto, stava imparando l’italiano. Cercava lavoro, ma senza il permesso di soggiorno era impossibile.
Le indagini sono in corso, ma una cosa è certa: il proiettile che lo ha colpito non è partito dalla sua pazzia o da droghe, ma dall’ideologia xenofoba e dall’abuso di potere delle forze dell’ordine.