
Tempo fa, lessi Il cane che guarda le stelle, un manga scritto da Takashi Murakami, e pubblicato nel 2008. Credo siano passati quattro, o cinque anni. Comunque, in quest’opera, i cui eventi sono visti dalla prospettiva di un cane, vengono trattate tematiche delicate, tra cui quella della felicità. Ma questo articolo non ha lo scopo d’essere una recensione dell’opera, semmai di usarla come base di partenza.
Piccolo preambolo
Non sono mai stato solito leggere fumetti e cose simili, preferisco l’animazione e cose di questo tipo. Ciononostante, per una volta cambiai idea provando a dare una chance al genere. Questo anche perché Il cane che guarda le stelle è un volume autoconclusivo, e non di una serie in corso, lunga ed estenuante.
Come dicevo, provai a dargli un’occasione… e ieri, dopo anni dalla mia lettura, ricordandomene, ho voluto comprarlo. Incredibile? Direi. Acquisto un libro all’anno, e sempre che io lo abbia già letto prima, e soprattutto che ne valga la pena. In altre parole il requisito principale è uno: deve essere un qualcosa, per me, di strepitoso. E il cane che guarda le stelle lo è.
Parlami di felicità
È una storia dura, quella di questo fumetto. Anzi, durissima. Che si conclude in modo oltremodo tragico, ma forse è questa la chiave che rende l’opera così meravigliosa. La tragedia finale chiude una storia intera vista dalla prospettiva di un cane e di tutte quelle cose che possono renderlo felice. E con lui tutti quelli che gli stanno attorno.
Ma allora, cos’è la felicità? Non farò un discorso filosofico, da saccente, né oggettivo, ma mi limiterò a fare qualche ragionamento.
Forse la domanda migliore non è quella che ho scritto qui sopra, semmai: “quanti tipi di felicità ci sono?” Tanti, credo. E per tipi non intendo quei piccoli momenti che sono in grado di rendere felici qualcuno. Sarebbe, immagino, troppo banale; un pensiero scolastico e mediocre.
Credo la felicità possa presentarsi in tanti modi, ma che non si possa generalizzare. Leggendo Il cane che guarda le stelle lo si può capire bene. Fa riflettere. Vi siete mai chiesti cosa possa rendere, per esempio, felice un cane? Un animale? Verrebbe da dire le “coccole”, “giocare” e quant’altro. È proprio quello che questa storia fa trasparire, e che non sembra portare a niente di nuovo. È proprio quello che il cane sembra pensare. Ma la felicità, senza che lui stesso se ne renda conto, risiede nella presenza. Nella presenza di qualcuno con cui condividere.
“Happiness is only real when shared”
Scrisse, su libro di sua proprietà, Il dottor Zhivago, Chris McCandless: giovane viaggiatore statunitense, deceduto in Alaska nel 1992 a soli 24 anni. Lui, che staccandosi dalla sua vita passata, immersa nella società, voleva diventare tutt’uno con la natura. Tornare ad essere quello che una volta l’uomo era. Tornare a vivere nella natura, cercando di entrare il più possibile in simbiosi con quella.
Ora, non notate qualcosa di strano? La felicità è reale solo quando condivisa. Amava la solitudine, fin quando non capì che forse era giunta l’ora di darci un taglio e tornare a condividersi accanto agli altri. Gira tutto attorno a quello. Siamo animali sociali, chi più chi meno: abbiamo tutti bisogno di qualcuno, immagino. No?
Viva la solitudine?
Come ho detto, esistono, a mio modo di vedere, vari tipi di felicità. Quindi sì: la felicità sta in altro. Magari pure nella solitudine. Non sempre vivere in una società rende le cose facili.
A volte condivido chi pensa che sparire dagli altri possa essere la soluzione. Perché ultimamente, dopo l’avvento dei social, la pressione sociale a volte è davvero spaventosa. Lo sono i doveri di ognuno; lo sono le relazioni interpersonali (con tutto quello che comportano, soprattutto se si è circondati da falsità, ipocrisia, eccetera). Sono terrificanti, però, soprattutto i giudizi. Essere etichettati in un certo modo, perché se non si rispettano certe attese allora si vale meno di chi le ha rispettate. Chi guadagna di più è automaticamente migliore di chi guadagna meno. E tutte cose di questo tipo sulle quali non vorrei soffermarmi. Perché sono scemenze.
“L’importante è la salute”
Potrebbe, questo, essere considerato un pensiero superficiale, o forse meglio dire banale, ma credo sia in realtà assolutamente condivisibile. Ho sentito spesso dire che la salute sia quella cosa che viene al primo posto: che sia propria o quella di chi ci sta attorno. E mai verità ha più logica. Come non condividere?
C’è persino chi resta solo per evitare di scoprire l’altro lato, cioè quello dell’infelicità, dovuta all’assenza altrui a causa proprio dello scorrere del tempo che, inesorabile, porta via gli affetti.
La fortuna di sapersi accettare
So che non è facile. Io stesso annaspo in queste acque profonde della difficile accettazione di se stessi, di me stesso. Credo tuttavia di averci fatto la scorza, ormai, a trent’anni compiuti. Credo sia più che altro una questione di età, almeno nel mio caso. Più i giorni passano e più capisco che quanto debba dare meno spazio alle cose noiose. Però, ripeto, questo riguarda me e soltanto me.
Non credo sia così semplice per tutti. Perché c’è chi pensa costantemente a tutto questo. E non è in grado, anche per sfortuna, di guardare oltre. Credo sia lo stesso discorso di prima, ovvero che c’entri la pressione che la società esercita sui tutti noi. Accentuando quella inutile sensazione di non sentirsi mai all’altezza.
Così spesso, per paura di non essere accettati anche dagli altri, capita di rinchiudersi, evitare di esporsi. Non credo ci sia una soluzione semplice a tutto ciò. Credo però che tutti quelli che sottovalutano, schernendo, chi soffre di questo, sono proprio la causa di questa piaga. E parte attiva dell’infelicità altrui.
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